Gente di mare 2
[2020]
Feste e tradizioni popolari di Riviera nei racconti di Mario Dentone pubblicati sul “Secolo XIX”
Non è questione di provare nostalgia per i bei tempi andati. Anche allora il mondo era un posto pieno di cose brutte: fame, violenza, malattie, egoismo. Non si tratta di mitizzare una stagione che, come tutte le altre, ha avuto i suoi chiaroscuri, i suoi pro e i suoi contro, gli alti e i bassi che accompagnano ogni epoca.
Ma l’Italia, la Liguria, i paesi di Riviera che racconta Mario Dentone avevano sicuramente di diverso, rispetto ad oggi, il gusto della semplicità. Giravano pochi soldi, la tecnologia non ci aveva ancora ammaliato con le sue fantasmagoriche meraviglie. Non eravamo ancora digitai, ma provavamo un godimento profondo per una rosetta aperta a metà, strusciata di pomodoro, insaporita con un filo d’olio, a merenda. Le nostre nonne non facevano acquagym a ottant’anni, e a cinquanta ci sembravano già vecchie. Giravano sempre vestite di nero, come se la vecchiaia stessa fosse il lutto. Ma erano le nostre complici, le nostre maestre di vita: bastava ascoltarle mentre snocciolavano proverbi come fossero sentenze della Cassazione. E quando cucinavano, apriti cielo: non ce n’era più per nessuno, altro che Master Chef.
C’era più sincerità: lo scemo del paese non era diversamente intelligente, era scemo e basta. Però, a differenza di oggi, faceva parte integrante della comunità, non era invisibile, non rappresentava uno scandalo. Nessuno cercava di nasconderlo sotto il tappeto. C’erano molte più barriere architettoniche di oggi, certo, ma anche molta più gente disposta a prendere in braccio un disabile per fargli fare una rampa di scale.
I vicini di casa talvolta potevano apparire invadenti e fastidiosi tutti sapevano tutto di tutti, sempre - e qualche volta probabilmente lo erano davvero. Ma non c’era bambino del quartiere che non fosse percepito come una responsabilità collettiva: un’occhiata per capire se stava cacciandosi in qualche guaio, prima o poi gliela davano tutti. Oggi lo chiamano presidio sociale: peccato non ci sia più, come le cabine telefoniche e le fontanelle per dissetarsi dopo una partita a pallone in piazzetta.
C’era quel senso di comunità che oggi si è perduto nello schermo dei nostri smartphone. La festa di paese era festa vera. E persino la novena dei morti non ci metteva tristezza, perché i nostri vecchi si erano inventati gli officieux: così il ricordo di chi se n’era andato veniva sublimato da una bottiglia, o da uno scarponcino di cera.
Non avevamo Spotify, ma alzi la mano chi non associa una canzone ascoltata dai vecchi, cari jukebox a un ricordo, a un’emozione indelebile.
Dentone ha la capacità dei grandi scrittori di farci rivivere quelle sensazioni. Di riportarci quei volti, quei personaggi che facevano parte del paesaggio urbano. E che ci facevano sentire saldamente ancorati alla nostra terra. Perché “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
È questo il segreto dello straordinario successo che i racconti di Mario Dentone hanno con i lettori del Secolo XIX. Una storia d’amore che, sulle pagine dell’edizione Levante, prosegue ininterrottamente da dodici anni e che ha già collezionato 550 appuntamenti, uno più struggente dell’altro.
Lui ci fa vedere una vecchia fotografia di noi stessi, di come eravamo. “La persona che stiamo guardando non esiste più- direbbe Saramago - e lei stessa, la fotografia, se potesse vederci non si riconoscerebbe in noi e direbbe: chi è questo signore che mi sta guardando con questa faccia”.
Dentone ci ricorda da dove veniamo. Così facendo, ci aiuta a capire meglio ciò che siamo diventati. E, forse, anche quel che varrebbe la pena recuperare.
Roberto Pettinaroli
Responsabile Edizione Levante “Il Secolo XIX”