Mala morte a San Nicolao
[2019]
Tutto parte da una ricerca archeologica e da uno scavo che potrei definire impegnativo e anche molto fortunato. Negli anni dal 2001 al 2008 ho avuto la possibilità di dirigere le ricerche che hanno riportato integralmente alla luce l’ospedale medievale di San Nicolao, posto sull’antica via pubblica di Pietra Colice, ossia l’area del Monte San Nicolao che – oggi – domina la strada statale del Passo del Bracco. Sono ricerche su cui esiste una vasta bibliografia specifica e il lettore più interessato – se avrà dote di curiosità e pazienza – potrà trovare ampi riferimenti nella prima parte del libro. In questa breve introduzione sarà sufficiente ricordare che il complesso ospedaliero, costituito da una chiesa, da un edificio per l’accoglienza dei viandanti e da un’area cimiteriale è stato attivo tra XII e XIV secolo, ha avuto fasi alterne di utilizzo nel XV secolo ed è stato definitivamente abbandonato nel XVI secolo, quando le fonti ce lo testimoniano in rovina e ridotto a “covo di huomini scellerati”, ossia di briganti e banditi.
L’introduzione necessita di qualche altra precisazione, anche perché bisogna offrire risposta ad un paio di domande: perché pubblicare una ricostruzione libera dei fatti e, soprattutto, perché ricondurre dati di natura strettamente scientifica ad un puro esercizio di storytelling?
La domanda è del tutto lecita e potrei semplicemente rispondere che il romanzo d’archeologia è diventato molto di moda negli ultimi anni e che – in questo tipo di operazioni editoriali – sono stato preceduto da colleghi di grande esperienza e di versatili doti. Vorrei anche aggiungere che si tratta di una soluzione efficace di divulgare e democratizzare il sapere, rendendolo alla portata di tutti, ma senza banalizzarlo o renderlo meramente vile. Infine – ma non per importanza – questo libro è frutto di un impegno preso con un amico di lunga data, grazie ad una piacevole frequentazione che si è cementata nel tempo, proprio partendo dal sito archeologico di San Nicolao e dalle storie “conservate dalla terra”.
Lo scrittore Mario Dentone, che il lettore incontrerà nella seconda parte di questo volume, è stato un assiduo frequentatore degli scavi condotti un decennio or sono e ha già ambientato una breve parte de “La badessa di Chiavari” nel complesso di San Nicolao, ossia negli spazi di ospitalità religiosa che la famiglia dei conti di Lavagna contribuì a realizzare e a rendere efficienti, a partire dal XIII secolo. Volendo proseguire in una provocazione ludica, avviata nel tempo con Dentone, l’unico mio rammarico è che Cecilia – la “sua” splendida badessa di Chiavari – nel breve soggiorno a San Nicolao abbia deciso di digiunare, perdendo l’occasione di assaggiare le saporite minestre e le focaccette di farina di castagne che – sulla base rigorosa dei dati di scavo – dovevano costituire l’alimento principale offerto ai viandanti, insieme a della buona acqua di sorgente.
Tuttavia, il digiuno di Cecilia era sicuramente motivato dalla vicenda e dall’invenzione narrativa di Dentone. Non uso scientemente il termine “finzione”, perché la vicenda della “badessa” si muove in uno spazio storico del tutto compatibile con il contesto in cui è stata ambientata. Lasciando al lettore l’eventuale piacere di rileggere o di scoprire le vicende di Cecilia, voglio aggiungere qualcosa sulla storia che anima le pagine di questo libro. Anche in questa occasione, il dato di scavo e le analisi antropologiche condotte in anni successivi e presentate pubblicamente in varie sedi, hanno offerto lo spunto per trasformare il dato scientifico in narrazione. L’archeologia è – o dovrebbe essere – una scienza fredda, che deve proporre dati oggettivi, senza mai farsi condizionare dalle suggestioni personali. Quando vi sono margini interpretativi da colmare, è bene che lo spazio non sia scientifico e che il narratore non sia l’archeologo. Così è nato questo libro, dove l’archeologo – autore della prima parte – propone alcuni dati di un percorso di ricerca e il narratore – che firma la seconda metà – colma liberamente le lacune, lasciando ampio spazio all’invenzione e alla fantasia.
Tutto parte da una sorta di cold case medievale: un caso di omicidio irrisolto, ossia un tema molto sfruttato dalla fiction televisiva e cinematografica. Abbiamo il corpo, o meglio lo scheletro, possediamo il profilo biologico ricostruito dall’antropologia forense, possiamo ipotizzare quale arma sia stata usata per il delitto, ma manca il nome della vittima, il movente del delitto è del tutto sconosciuto e sono pure ignoti gli autori dell’efferato omicidio. L’archeologia si deve fermare qui. La narrativa, invece, può prendere le mosse da questi dati per lavorare con gli strumenti dell’immaginazione e della creatività. Ovviamente in questo libro, come in tutti i libri, i due autori fanno uso di codici molto diversi, avviando una sorta di gioco tra mittenti e una pluralità (così si augura l’Editore) di potenziali destinatari.
Segni, tracce, indizi e storie dalla terra: ho citato quasi tutto quello che chi esercita la mia professione dovrebbe avere a cuore, rischiando quasi la banalità. È bene, quindi, che io giunga celermente alla conclusione.
Un ultimo avvertimento: il lettore non deve sentirsi obbligato a leggere entrambe le parti in cui è diviso questo libro, e non è necessario farlo nell’ordine preciso in cui compaiono a stampa. Le due parti sono del tutto indipendenti e sono autonome l’una dall’altra. Tuttavia, se si leggono nel loro complesso, sono convinto che garantiranno una piacevole esperienza.
( Fabrizio Benente )