Una prigione di vetro
[1994]
Quattro anni dopo l’esordio di scrittura teatrale mettendo su un palcoscenico Niccolò Paganini, e soprattutto dopo gli apprezzamenti, oltre che della Corsinovi, di altri critici e studiosi paganiniani oltre che del mondo teatrale, l’idea di proseguire a far rivivere in scena protagonisti del mondo letterario, artistico, insomma culturale, particolarmente significativi per la mia sensibilità e nella mia vita, mi apparve gratificante anzitutto per me, per la mia curiosità, e ovviamente, poi, anche per lo scrivere.
Luigi Tenco, nel 1994, avrebbe avuto 56 anni, invece era morto da ventisette anni, con quello sparo nella notte in albergo, al Festival di Sanremo: misteri, inchieste, polemiche, cinismo del mondo patinato e ipocrita dello spettacolo e della tivu, tutto fuorché invece guardare il bellissimo volto un po’ tormentato e cupo, ma anche aperto, immenso, di quel ragazzo di appena ventotto anni, che aveva il difetto (o magnifico pregio?) di “sentire” oltre il disco, di “scrivere” oltre il testo, di “dire” oltre la cosiddetta normalità.
Questo era ed è Tenco. Lo seguivo fin da quando avevo quindici anni, nel 1962 dei primi dischi di un certo successo, talvolta ero deriso dagli amici che già si assatanavano ai juke box per complessi, cover, dischi dell’estate, canzonette festivaliere, cantagiri. E quando quella sera apparve sul palcoscenico del terrore, al Festival di Sanremo, appena lo vidi mi dissi, e anzi lo dissi a un amico vicino a me, nel bar, “Stasera finisce male”. E l’indomani mattina, quando alle sette mia madre venne a svegliarmi per andare a scuola, nel semibuio della stanza mi trasmise la fredda notizia del giornale radio. Non fiatai, non mi stupii, come se l’avessi solo attesa, quella notizia. Non andai a scuola e mia madre capì, non venne a scuotermi.
Da allora sentii Tenco come un fratello, poi negli anni la sua famiglia mi accettò e mi accolse anzi come un nuovo fratello vero, e al di là dal mio testo teatrale, poi messo in scena più volte con successo, il mio testo vuole essere il mio regalo a Luigi e al fratello Valentino, e a Graziella, Patrizia, Giuseppe, che sento come la mia famiglia.
Letteratura, insomma, sì, ma soprattutto umanità.