Un grido taciuto
(L’ultimo falò di Cesare Pavese)
[1999]
Pavese, come Tenco, risale per me a tempi adolescenziali, e inoltre la loro affinità: Piemonte, Langhe, vigne e vendemmia, la campagna e il mare di Liguria… me li ha sempre resi vicini anche nelle emozioni, e purtroppo li ha storicamente resi vicini e simili nella vita e nella morte, nel destino.
Non so quante volte in oltre quarant’anni ho letto e riletto le pagine di Pavese e non so quante pagine, saggi, relazioni a convegni, appunti per conferenze, ho riempito, raccogliendo per tutti questi anni ogni minimo articolo di giornale che scrivesse di lui, come per Tenco, fino a costituire per entrambi un archivio che credo unico, e prezioso.
Potevo dunque non scrivere un testo teatrale per fare vivere Pavese? Ecco fatto… Non mi fu difficile, ovviamente, tanto ormai lo conoscevo, ma il difficile fu il meccanismo, il pretesto tecnico in scena… E la soluzione mi venne d’improvviso: dividere in due la scena, e fare svolgere tutto parallelamente, la stanza del suicidio adiacente la stanza del ricordo della vita, dove ruotano aneddoti e personaggi: Nuto, gli amici e i compagni di partito, la casa editrice Einaudi, e le donne, i fantasmi delle donne… insomma il vero triste teatro di Cesare Pavese, annegato nel suo tormento, in quel “mestiere di vivere” non imparato in quarantadue anni di vita, fino alla resa in una calda notte d’agosto torinese.